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Fame nel mondo, un paradosso


di Giorgio Nebbia

La fame dei poveri dipende in gran parte dalle abitudini alimentari egoistiche e dagli sprechi dei paesi ricchi.

«Dove troveremo tutto il pane/Per sfamare tanta gente?», dice una canzone degli scout, e la tanta gente è costituita da circa 900 milioni di persone sui 6200 milioni di abitanti totali della Terra.

Lo conferma la Fao nella «Giornata dell'alimentazione» che si è tenuta ieri e che quest'anno è stata dedicata a come «costruire un'alleanza internazionale contro la fame». Molte delle persone sottoalimentate muoiono in tenera età; gli altri sono esposti a malattie, o sono impediti nell'apprendimento o nel lavoro.

Per sopravvivere e vivere basterebbero, ogni giorno, circa un chilogrammo di cereali, pochi grammi di proteine animali, meno di due litri di acqua e poche decine di grammi di sali. Sono quantità irrisorie, se riferite agli standard alimentari dei Paesi industriali, ma moltissimi abitanti della Terra non hanno neanche questo.

A ben guardare, nessuno di questi problemi sarebbe irrisolvibile se si lanciasse quella «alleanza internazionale», suggerita dalla Fao, economica ma anche di ricerca e di imprese per sconfiggere il grande nemico: la fame.

Il primo volto del nemico è offerto dall'ineguaglianza fra i consumi di alimenti: circa il 70 per cento dell'energia e delle proteine alimentari sono offerte nel mondo dai cereali - grano, granturco, riso, orzo, avena, eccetera - la cui produzione ammonta a circa 1900 milioni di tonnellate all'anno.
Se si dividesse questa quantità per i 6.200 milioni di abitanti della Terra, ogni persona avrebbe a disposizione 300 chilogrammi all'anno di cereali, circa un chilo al giorno.
Con l'integrazione di carne, latte, legumi, grassi eccetera, nessuno avrebbe fame.

Il fatto è che circa mille milioni di persone, quelle che abitano nei Paesi industrializzati, si prendono circa 800 chilogrammi all'anno di cereali a testa, usati direttamente come alimenti o impiegati come mangimi per il bestiame che fornisce la pregiata carne, per cui agli abitanti dei Paesi poveri, in media, resta una quantità insufficiente di cereali.
La fame dei poveri dipende, quindi, in gran parte dalle egoistiche abitudini alimentari, dagli sprechi dei paesi ricchi.

Un secondo volto del nemico è rappresentato dai capricci della domanda: i Paesi industrializzati chiedono carne, grassi, caffè, cacao, soia, certi tipi di cereali e frutta, e molti Paesi poveri, per denaro, sono costretti a produrre le derrate da esportare, utilizzando terreni che potrebbero essere coltivati per gli alimenti dei loro stessi abitanti.

La situazione è aggravata dalle regole economiche interne dei blocchi dei Paesi industriali: in Europa si producono eccedenze agricole - dalla frutta, al latte, alle uova, alle patate - che vengono distrutte o esportate in concorrenza con i prodotti agricoli dei Paesi poveri che così diventano sempre più poveri.
Uno scontro di interessi che è al centro delle controverse conferenze dell'organizzazione mondiale del commercio.

Un terzo volto è rappresentato, nei Paesi poveri, dall'arretratezza agricola, dalla mancanza di informazioni scientifiche, dalla mancanza di apparecchiature e macchinari progettati per risolvere problemi di aratura, irrigazione, produzione e conservazione degli alimenti ben diversi in Africa, in Asia, nell'America latina, da quelli europei e americani.
Eppure con adatte tecniche è possibile ricuperare dalle eccedenze agricole proteine pregiate e sostanze energetiche adatte ad integrare gli alimenti poveri dei paesi poveri. Sono note tecniche di conservazione degli alimenti deteriorabili, tecniche di depurazione delle acque destinate ad uso potabile, è possibile organizzare sistemi di irrigazione e utilizzare meglio le risorse idriche disponibili nei vari Paesi.

Per l'agricoltura e la conservazione degli alimenti occorrono fonti di energia che sono offerte dal sole e dal vento, catturabili con dispositivi che i Paesi poveri potrebbero costruire sul posto. Una vecchia massima dice che se si dà un pesce a un affamato questi mangia per un giorno; se gli si insegna a pescare potrà sfamarsi per tutta la vita.

La «alleanza internazionale contro la fame» presuppone la crescita e diffusione di cultura e ingegneria della solidarietà, mirate alla progettazione e alla realizzazione di processi e tecniche e macchinari adatti alle conoscenze e all'ambiente dei paesi poveri, in grado di aumentare la disponibilità di cibo. Nascerà mai in qualche nostra Università, una cattedra di questo genere?

Gazzetta del mezzogiorno - 17 ottobre 2003




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